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Tra i graditi libri ricevuti in regalo dai miei cari amici,
Morimondo di Paolo Rumiz .
Ne riporto un capitolo.
Ombre sulla corrente.
Dietro alla Dora c’era
Saluggia, dove dormivano le scorie nucleari italiane in uno dei punti più a rischio
inondazione della Pianura Padana. L’avevo vista per la prima volta sotto un
temporale che faceva friggere i fili dell’alta tensione in mezzo alle saette
tra le risaie. Avevo tentato di avvicinarla, ma polizia e carabinieri mandavano
indietro tutti quelli che non vi lavoravano.
Quel giorno sul fiume imparammo che spesso accanto alla bellezza si annida
l’orrore, per chissà quale diavoleria tecnologica, come per attrazione fatale
di opposti. Qualche chilometro più a est avremmo trovato anche la centrale
atomica di trino, con le sue cupole a pagoda che parevano fatte per i fulmini.
Sulla carta risultava spenta, ma il suo cuore pulsava ancora, sotto la
sorveglianza di decine di tecnici. Era come se il demonio avesse scelto l’innocenza
della natura per costruire le sue tane di tenebra.
Vogavamo in silenzio, dopo il ponte del Crescentino fu un frastuono di
uccelli nelle garzaie. Eravamo unici padroni di una bellezza incredibile, ma il
mostro vivente abitava li , sotto il gigante himalayano del Rosa. Era stato
schedato “grande opera”, con quell’ enfasi babilonica, da piano quinquennale
sovietico, che sembrava fatta apposta per occultare gli insulti all’ ambiente. Spesso
la grandezza in edilizia è tale solo nella devastazione: e il peggio è che “grandi”
manufatti si fanno non la dove è giusto che si facciano, ma banalmente dove le
popolazione protestano meno. Si scelgono i punti di minor resistenza. Era accaduto
nel Vercellese, che si era visto infliggere quel regalo solo i reggitori della
cosa pubblica avevano saggiato la bassa conflittualità sociale del territorio.
I piemontesi sono obbedienti, ma i vercellesi sono i più obbedienti degli obbedienti,
e l’Italia li premiava col rischio permanente di una catastrofe (storia già
sentita vedi le genti del Delta del Po e la centrale termoelettrica di Polesine
Camerini ndr).
L’incubo rese ancora più lancinante la percezione della bellezza che
da quel punto in poi si disvelò. Eravamo sotto le colline del Monferrato, e su
quel lato il fiume formava ampi calanchi grigi sotto il campanile di un
villaggio di nome Cantavenna. Dalla parte opposta, a Nord, un greto a pelo d’acqua
luccicava di ciottoli come un branco di pesci vivi. Era il passaggio che Angelo
(Angelo Bosio 2 risalite a remi del Po ndr) ci aveva già magnificato come Rocca
delle Donne. Tirammo le barche in secca e ci tuffammo in un’acqua veloce e
traslucida di mica come velluto. Quella sera dovevamo arrivare fino al ponte di
Trino, dove amici torinesi ci aspettavano per le decretabili operazioni di
trasbordo, ma non ne avevamo nessuna voglia. Eravamo ancora soli e padroni del
mondo, e in quella pace il corpo si ribellò e chiese requie.
Steso su isolotto di ghiaie pensai a un tavolo da osteria, di quelli
di una volta, con le gambe piantate nella corrente. Gli vidi intorno, sei
seggiole,, una tovaglia immacolata e una bottiglia di Ribolla gialla del
Collio. I nostri piedi si erano immersi nell’acqua bassa a filo di ghiaia.
Angelo e Alex brindavano alla salute della acque italiane, poi vidi un
cameriere entrare nel fiume con le braghe arrotolate al ginocchio e piazzare a
centro tavola un piatto con spaghetti alle vongole. Ero nel regno dei sapori di
terra e tutto li intorno, a due passi dalla Francia, parlava di buon vino e
formaggi, eppure nulla di piemontese mi passo per la mente in quel menù
chiamato desiderio. Sentivo il mare a cinquecento chilometri dalla foce.
Navigando verso Trino col vento contrario, vedemmo a distanza un’isola
che poi, a duecento metri, si svelò un impressionante assembramento di
marangoni. Migliaia di uccelli, che si spostarono di malavoglia quando fummo
loro vicini. E poi anatre, garzette, aironi cenerini e pattuglie di oche
selvatiche in volo sull’autostrada d’acqua. La meraviglia sta alla base della
filosofia, scrisse non so dove Platone, e la vicinanza con quegli uccelli
liberi mi rese ancor più felice. Ogni specie aveva la sua rotta, la sua quota,
la sua tecnica di volo.
Ma ebbi un tuffo al cuore. Non c’erano le cicogne. Rividi il Danubio e
il Morava, dove avevo sentito mille volte il colpo secco e ripetuto dei loro
becchi. Qui nulla. Gli uccelli portatori di fortuna, su cui neanche i
cacciatori sparavano, avevano abbandonato l’Italia. Lo senti segno di malaugurio
e mi chiesi se anche quel traffico pazzesco di volatili sul Po fosse sintomo
di salute o piuttosto di abbandono da parte degli uomini. Valentina raccontò
della Drava, dove tutto era il contrario del Po, l’acqua era trafficatissima,
non deserta come quella. Un fiume senza guardrail e muri di cemento, ma da
foreste immense e labirinti di terre strade sterrate. I fiumi slavi sono più vissuti dei nostri”
disse. Vedi passare canoisti, poi un pescatore con un cappello di paglia, poi
una nave da carico, con la cuoca che ti guarda dalla finestra, poi una nave
passeggeri che sembra un frigorifero con tanti vetri e la gente e mangia. Ci
sono anche molti animali in più. Una volta ho visto nello stesso istante due
canoe, una nave passeggeri, una da trasporto e due aquile. Senti proprio la via
d’acqua che collega posti diversi. Qui invece hai la sensazione di stare in un
deserto, anche a due passi da una città.” Il Po è un’anomalia italiana. Torino a
parte non attraversa metropoli. Oltre le Alpi hai Vienna, Budapest; Belgrado,
Parigi, Colonia … E qui? Al massimo Piacenza e Cremona. E anche se ci passa
vicino, quasi non lo vedi, tanto è alto l’argine che lo potregge.
Valentina ci segnalò,. A nord di Trino, un posto chiamato Bosco delle
Sorti della Partecipanza, dove uno scampolo di terra comunitaria veniva gestito
secondo criteri antitetici allo sfruttamento capitalistico. Anche quella era un’anomalia
italiana, ma in positivo. “E come un’isola in mezzo alle risaie,” disse. “ In
antico la foresta era sacra a un dio. Forse ad Apollo, ed è tra i pochissimi
lucus sopravvissuti alla distruzione. In cinquecento ettari contiene
quattrocento alberi diversi. Viene gestito sulla base di una legge creata nel
1202 e mai modificata.”. Quell’anno il marchese di Monferrato concesse l’uso
collettivo della foresta e un gruppo di famiglie, dette partecipanti. “ I loro
discendenti esistono ancora,” disse Vale “e la loro presenza nella zona è così
continua che alcuni anni or sono vennero fatti su di loro alcuni studi
genetici, di quelli che fanno sulle popolazioni rimate isolate come i pastori
della Barbagia o i Baschi a sud dei Pirenei.”
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