giovedì 16 ottobre 2008

Regressione mondiale ... così dicono ....

E’ lungo, è il pensiero di Ivan Illich, dal suo libro “Per una storia dei bisogni”, cinque saggi riassunti brevemente nell’introduzione che riporto. Il libro è stato pubblicato nel 1977, trent’anni fa! Già allora questo signore sosteneva che il modello industriale è cioè quello attuale, non poteva essere alla base economica, sanitaria e ambientale delle società. Era comunque il suo pensiero “ma a mi a me sà che el gavea rason !” (dall’etrusco: “Ma a me mi sa che aveva ragione! ) e le attuali crisi economiche e sociali lo dimostrano.
Non è obbligatorio leggerlo, commentarlo ecc. questo è pur sempre il mio diario elettronico.

... "I cinque saggi qui raccolti rispecchiano un decennio di riflessioni sul modo di produzione industriale. Durante questo periodo mi sono soprattutto occupato dei processi attraverso i quali una crescente dipendenza da beni e servizi prodotti in serie elimina a poco a poco le condizioni necessarie per una vita conviviale. Ciascun saggio, nell’esaminare un settore diverso della crescita economica , dimostra una regola generale: i valori d’uso vengono ineluttabilmente distrutti quando il modo di produzione industriale raggiunge quel predomino che io ho chiamato “monopolio radicale”. Nell’assieme i saggi descrivono in che modo la crescita industriale produce la versione moderna della povertà.
Questo tipo di povertà fa la sua apparizione quando l’intensità della dipendenza dal mercato arriva a una certa soglia. Sul piano soggettivo, essa è quello stato di opulenza frustante che s’ingenera nelle persone menomate da una schiacciante soggezione alle ricchezze della produttività industriale. Essa non fa altro che privare le sue vittime della libertà e del potere di agire autonomamente, di vivere in maniera creativa; la riduce a sopravvivere grazie al fatto di essere inserite in relazioni di mercato.
Questo nuovo tipo di impotenza, proprio perché vissuta a livello così profondo, difficilmente riesce a trovare espressione. Siamo testimoni di una trasformazione appena percettibile del linguaggio corrente, per cui i verbi che una volta indicavano azioni intese a procurare una soddisfazione vengono sostituiti da sostantivi che indicano prodotti di serie destinati a un mero consumo passivo: “imparare” per esempio, diventa “ acquisto di un titolo di studio”. Traspare da questo un profondo cambiamento dell’immagine che gli individui e la società si fanno di se stessi. E non è il solito profano che fa fatica a descrivere con precisione ciò che avverte. L’economista di professione non sa riconoscere quella povertà che i suoi strumenti convenzionali non sono in grado di rilevare. Il nuovo fattore di mutazione dell’impoverimento continua tuttavia a diffondersi. L’incapacità peculiarmente moderna, di usare in modo autonomo le doti personali, la vita comunitaria e le risorse ambientali infetta ogni aspetto della vita in cui una merce escogitata da professionisti sia riuscita a soppiantare un valore d’uso plasmato da una cultura. Viene così soppressa la possibilità di conoscere un soddisfazione personale e sociale al di fuori del mercato. Io sono povero, ad esempio, una volta che per il fatto di abitare a Los Angeles o di lavorare al trentacinquesimo piano abbia perduto il valore dell’uso delle mie gambe.
Questa nuova povertà generatrice d’impotenza non va confusa con il divario tra i consumi dei ricchi e dei poveri, sempre maggiore in un mondo in cui i bisogni fondamentali sono sempre più determinati dai prodotti industriali. Tale divario è la forma che la povertà tradizionale assume in una società industriale, e che i termini convenzionali della lotta di classe adeguatamente mettono in luce e riducono.
Distinguo altresì la povertà di tipo moderno dai prezzi gravosi imposti dalle “esternalità” che gli accresciuti livelli di produzione rigettano nell’ambiente. E’ chiaro che questi tipi di inquinamento, di tensione e di carichi fiscali sono ripartiti in maniera ineguale, e che in maniera altrettanto ineguale sono distribuite le difese da tali depredazioni. Ma, come i nuovi divari in fatto di accesso, anche queste iniquità dei costi sociali sono aspetti della povertà industrializzata per i quali è possibile trovare indicatori economici e verifiche oggettive. Non è così invece per l’impotenza industrializzata, che colpisce indifferentemente ricchi e poveri. Dove regna questo tipo di povertà, è impedito o criminalizzato qualsiasi modo di vivere che non dipenda da un consumo di merci: fare a meno di consumare diventa impossibile, non soltanto per il consumatore medio ma persino per il povero. A nulla servono tutte le forme di assistenza sociale. La libertà di progettare e farsi a modo proprio la propria casa è soppressa, sostituita dalla fornitura burocratica di alloggi standardizzati, negli Stati Uniti come a cuba o in Svezia. L’organizzazione dell’impiego, della manodopera qualificata, delle risorse edilizie, i regolamenti, i requisiti necessari per ottenere credito dalle banche, tutto porta a considerare l’abitazione come una merce anziché un’attività. Che poi questa merce sia fornita da un imprenditore privato o da un apparatcik, il risultato concreto è sempre lo stesso: l’impotenza del cittadino, la nostra forma, specificatamente moderna, di povertà.
Ovunque si posi l’ombra della crescita economica, noi diventiamo inutili se non abbiamo un impiego o se non siamo impiegati a consumare; il tentativo di costruirsi una casa o di mettere a posto un osso senza ricorrere agli specialisti debitamente patentati è considerata una bizzaria anarchica. Perdiamo di vista le nostre risorse, perdiamo il controllo delle condizioni ambientali che lo rendono utilizzabili, perdiamo il gusto di affrontare con fiducia le difficoltà esterne e le ansie interiori. Porterò l’esempio di come nascono oggi i bambini nel Messico: partorire senza assistenza professionale è divenuta una cosa impensabile per le donne i cui mariti hanno un impiego regolare e che possono perciò accedere ai servizi sociali, per marginali o inconsistenti che questi siano. Esse si muovono ormai in ambienti dove la produzione di bambini rispecchia fedelmente i modelli della produzione industriale. Tuttavia le loro sorelle che vivono nei quartieri dei poveri o nei villaggi degli isolati si sentono ancora capaci di partorire sulle loro stuoie, senza sapere che rischiano una moderna imputazione di negligenza colposa nei confronti dei propri bambini. Man mano però che i modelli di parto promossi dai professionisti arrivano anche a queste donne indipendenti, vengono distrutti il desiderio, la capacità e le condizioni di un comportamento autonomo. In una società industriale avanzata, la modernizzazione della povertà vuol dire che la gente non è più in grado di riconoscere l’evidenza quando non sia attestata da un professionista, sia egli un meteorologo televisivo o un educatore; che un disturbo organico diventa intollerabilmente minaccioso se non è medicalizzato mettendosi nelle mani di un terapista; che non si hanno più relazioni con gli amici e con il prossimo se non si dispone di veicoli per coprire la distanza che ci separa da loro (e che creata prima di tutto dai veicoli stessi). Insomma veniamo a trovarci, per la maggior parte del tempo,senza contatti con il nostro mondo, senza possibilità di vedere coloro per i quali lavoriamo, senza alcuna sintonia con ciò che vediamo." ...

1 commento:

Anonimo ha detto...

Standing Ovation...